PASSO DEL GANDAZZO DALLA MEZZACCA

Introbio – Baite Serra – Baita Mezzacca – Alpe Pei – Passo del Gandazzo

  • Difficoltà : Percorso per Escursionisti Esperti T5

Indicazioni : Assenti.

Bollatura : Assente;

Traccia : Mulattiera, sentiero o assente.

  • Tempo di salita : ca 5 [h]

  • Dislivello positivo : ca 1200 [m]

  • Periodo consigliato : Tardo autunno o inizio di primavera.

Itinerario fuori dal mondo; solo per avventurieri esperti, preparati ed equipaggiati. Assoluto passo fermo, ottimo orientamento e sicurezza decisionale sono requisiti fondamentali. Navigazione difficile anche a conoscere già la zona. Terreno asciutto e stabili condizioni meteo imprescindibili. L’abetaia di Mezzacca è oggettivamente pericolosa con maltempo e in giornate ventose per reale pericolo di caduta piante.

  • Disponibilità acqua : Nessuna.

  • Appoggi : Nessuno.

  • Data di stesura relazione : Primi anni venti.

Una perduta Via per un salvifico colloquio con la Morte. Un privilegio per pochi, prima del tempo.

Una perduta Via per un salvifico colloquio con la Morte. Un privilegio per pochi, prima del tempo.

DESCRIZIONE: Partenza da Introbio, mulattiera di Sant’Uberto e al primo bivio prendo per il Gandazzo. Un superbo antico castagno mi aspetta appena pochi metri più sopra. Dal fusto avviluppato, come se si fosse girato nella direzione del mio arrivo pochi attimi prima ch’io potessi vederlo, sembra intuire dal mio passo pesante dove sono diretto. Proprio lui, che ricorda ancora i tempi della Via che vado cercando, apre per me un’oscena bocca. Cacciando bava di corteccia sputa faticosamente parole pesanti come macigni. “Non svegliare ciò che è morto!”. Oggi, in questo tardo autunno di dolci castagne, il suo frutto è amaro.

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Su antico selciato sbuco sulla pista dell’acquedotto, diretta alle Baite Serra, nei pressi della Costa del San Martin all’altezza del Salto del Diavolo. Guardando lungo l’oscuro tortuoso canale di Teagiolo aguzze punte sbirciano da sopra un fitto scuro tappeto di abeti nati da piantumazione artificiale. Molti di essi, morti e bianchi traslucidi, come spilli sul cuscino; i restanti, quasi tutti, solo uno sparuto ciuffetto di verde a più di trenta metri d’altezza. Un’aria strana tira sempre in questo canale. Oggi sembra implorarmi di tornare indietro.

Preso il sentiero diretto all’Alpe Te, appena addentro l’abetaia, un traccia vi si stacca a sinistra. Il sentiero della Mezzacca sale snodato con infiniti segni di battaglie sul corpo combattute a colpi di motosega per liberarlo dagli abeti schiantati. Rovi lambiscono la traccia nella parte bassa in attesa che l’oscurità del cuore del bosco arrivi a stendere il suo velo di silenzio e mistero sulla Via. Salendo per numerose serpentine sotto l’ombrosa volta punto alla luce. Ginestre mi accolgono al limitare dello spiazzo prativo della panoramica Baita Mezzacca. Per un momento mi dimentico della Via tanto dignitoso sembra ai miei occhi questo guercio occhio di prato e il suo antico rimaneggiato ricovero.

Alzandomi sulla costa tra le ginestre scovo una traccia che traversa verso destra. Subito si rafforza imperiosa raggiungendo alcuni commoventi isolati antichi faggi. Scavalcando un’infinità di piante cadute giungo ad chiaro bivio. Tenendo la destra scendo per larga cengia in un primo canale e, per traverso e nuovo canalino, traverso nel ripidissimo bosco salendo una rampa rocciosa. Il canale di Teagiolo al mio fianco è un mostro informe, nero e gigantesco, che rapisce i miei occhi e la mia immaginazione insinuando un sordo eco tra le tempie. Rapito dall’incubo non mi accorgo quasi che il sentierino sta visivamente morendo. Traballante giunge al poggio d’una costa dove i miseri ruderi d’una vecchissima baita emergono incassati nel terreno, ai piedi d’un immenso roccione.
Tamburi. Tamburi mi chiamano dettano ora il ritmo in un crescendo irresistibile. Un verde scivolo nell’abetaia mi spinge verso un’orrida vallaccia dai fianchi piallati. Severe cime scostano i lembi del bosco e mi adocchiano curiose. Martelli. Martelli sulla pelle tesa del mio tamburo.

Rasentando il labbro eroso e a picco sul fondale sassoso raggiungo delicatamente il greto nei pressi d’uno sperone nato dall’intersezione a V di due orridi canali. Tenuta la sinistra orografica di quello a man destra lo risalgo venendo costretto ad attraversarlo. Per rada traccia sporca lo salgo saltandolo di nuovo più a monte in corrispondenza d’una placconata rocciosa che cela ai suoi piedi un’esposta cengia che si perde nell’abetaia sul dorso di cresta. Accolto ancora di nuovo dall’oscurità, ecco; di nuovo silenzio.
Le orecchie fischiano e una piana radura su cui giacciono cadaveri d’abete cela al primo colpo d’occhio l’Alpe Pei. Muretti a secco verdi di muschio e cumuli di sassi. Una roccia al centro porta un’iscrizione incisa.
Temo ad aprire bocca per tentar di leggerla. Temo tornino i tamburi.
Uomini braccati come animali dalla fame hanno eretto questo luogo nel tempo della nera miseria. Ora cos’è? Abbiamo smesso di essere la misura d’ogni cosa; siamo andati fuori scala con la nostra tecnica, perdendo di valore e smarrendo il motivo stesso della nostra presenza come specie sulla Terra.

Nel frugare sovrappensiero con gli occhi tra gli stretti paralleli loculi di sasso dell’Alpe la Morte, sorpresa nel suo riposo, apre un occhio e sembra mi guardi attraverso. Con il tremore di pupilla d’un solo istante mi mette a fuoco e il sapore di un’intera vita mi spianta tra i denti. L’occhio poi si richiude, e io non sarei mai dovuto venire qui.
Spaventato ed incredulo scappo scendendo un poco lungo la dorsale dell’Alpe e raggiungo il prossimo canale che schiude per me una provvidenziale cengia. Risalito un pelo la costa supero una stretta forra e per lungo altalenante traverso su spogli aerei balconi approdo in un dolce bosco. Una rada traccia mi deposita finalmente ad una larga sella prativa segnata da una larghissima traccia e da molte frecce segnavia.
Mi volto ansimante, il cuore in gola, con la certezza di scoprirmi inseguito ma, invece, niente. Qui al Passo Gandazzo c’è solo una vibrazione diversa, quasi un chiacchiericcio gaudente, e una ed una singola verità. I miei giorni hanno un senso perché un giorno finiranno. Nel frattempo meglio vivere quello per cui morirei felice; e nel far questo, non trovo più spazio per la paura.
Le acque così placate, possono infine richiudersi al termine del mio passaggio. La Costa Piana, con le sue repellenti ossimoriche propaggini, torna a preservare mistero e silenzio che, spansi nelle mie orecchie, hanno ora il rumore di immensi flutti divelti da reconditi fondali e di nuovo felici in mano alla forza di gravità.

VIE DI FUGA : Non presenti.
CONSIDERAZIONI: L’opzione alta al bivio, dopo la marcata immissione d’una traccia cieca sorretta da muro a secco, attraversa il primo canaletto all’aperto ed al cospetto d’un meraviglioso acero. Dopo la confusione di pochi gradini di sasso la vegetazione asfissiante spinge appresso ad una frana. Il forzare il passaggio al fondo del canale scopre una cengia nei pressi d’un Tremel e d’un acero campestre. Oltre il nulla; l’abetaia porta solo ad uscire sugli alti sfuggenti pascoli magri della Costa Piana.
Invece, nei pressi della fine del bosco dopo il rudere (Baita Pei in un foglio IGM d’inizio secolo), una tracciolina s’appresta a scendere un poco verso il canale. Rimontando la costa dopo averne attraversato l’alveo vi si scopre un muretto a secco ed una suggestione di traccia diretta alla cengia del canale dopo l’Alpe Pei. Scorciatoia quindi, se può valere qualcosa un termine come questo in questi lembi di mondo.
SUGGERIMENTI PER LA DISCESA : Dall’Alpe del Te.

APPROFONDIMENTI

RIFERIMENTI CARTOGRAFICI:

• Carta IGM
Grazie cara amica che mi fai sempre cacciare nei guai!

 

Tutti i diritti riservati. Ogni contenuto è originale e di esclusiva proprietà  MNR – Negri “Manara” Raffaele

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